12 Settembre 1942 :La tragedia della Laconia. La condanna a morte di 1800 prigionieri di guerra italiani.

Era la notte del 12 settembre 1942, la nave inglese ‘Laconia’ navigava al largo
della costa africana nei pressi dell’isola di Ascensione. Si trattava di un
transatlantico del 1922 della Cunard White Star Line da 20.000 tonnellate, al
comando del capitano Rudolf Sharp, convertito dagli inglesi in un mercantile
armato adibito al trasporto delle truppe. La nave era salpata da Suez il 12
agosto con a bordo 463 tra ufficiali e uomini di equipaggio, 286 militari
inglesi, 103 guardie polacche, 80 tra donne e bambini, familiari di militari
britannici, e 1800 prigionieri di guerra italiani
. I militari italiani appartenevano alle divisioni Ariete,
Brescia, Pavia, Trento, Trieste e Sabratha (ex Verona), fatti prigionieri nel
luglio 1942 nella prima battaglia di El Alamein.

Il mese di navigazione aveva messo a dura prova i nostri soldati, ammassati in
tre stive con razioni di viveri inadeguate e con appena due ore ‘d’aria’ al
giorno, una al mattino e una alla sera, ma finalmente il viaggio stava per
terminare, ancora poche settimane e la nave sarebbe arrivata in Inghilterra.
Invece, la notte del 12 settembre, la Laconia finì nel periscopio del capitano
Werner Hartenstein al comando dell’U-Boot 156. In relazione con le leggi di
guerra osservate dall’Asse e dagli alleati la nave era assolutamente un
obiettivo militare: batteva bandiera nemica, zigzagava come di norma a luci
spente, e soprattutto era armata, con due cannoni navali da 4.7″ pollici, e sei
cannoni antiaerei da 3″. Colpita da due siluri dopo un’ora e mezzo la nave si
inabissò.

L’U-Boot emerse ed a questo punto si accorse che tra i naufraghi vi erano dei
soldati alleati italiani. Hartenstein parlò con due di essi e, appresa la
composizione dei passeggeri della nave nemica, diede subito ospitalità ai
feriti, alle donne ed ai bambini, ed il ponte del sottomarino si riempì di
coloro che non avevano trovato posto sulle scialuppe di salvataggio. Ma i
naufraghi erano troppi ed il comandante chiese istruzioni al suo comando: 13,9 –
ATLANTICO VERSO FREETOWN – AFFONDATO INGLESE LACONIA QU. F.F. 7721 – 310 –
PURTROPPO CON 1800 PRIGIONIERI ITALIANI – SINO AD ORA 90 SALVATI – COMBUSTIBILE
157 M3 – SILURI 19 – ALISEI FORZA 3 – CHIEDO ORDINI”.

Informato dell’accaduto l’Ammiraglio Dönitz ordinò il salvataggio dei naufraghi,
con particolare riguardo agli italiani, e dispose che altri due sommergibili in
zona, U-506 del capitano Würdemann e U-507 del cap. Schacht, partecipassero alle
operazioni di salvataggio. Inoltre avvisò il comando italiano che inviò sul
luogo il sottomarino Cappellini, al comando del Tenente di vascello Marco
Revedin.

A questo punto bisogna suddividere la vicenda nei due drammatici avvenimenti
che la contraddistinsero: quello dell’omicidio premeditato di centinaia di
prigionieri di guerra italiani, e quello dei sopravvissuti all’affondamento,
rimasti per giorni in balia delle onde. La tragedia più spaventosa, l’orrore più
grande, fu senz’altro il primo, che si svolse nei circa 60 minuti trascorsi tra
il siluramento e l’affondamento della nave, una vicenda poco nota circondata
ancora oggi da un vergognoso silenzio.

LA CONDANNA A MORTE DI 1800 PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI

Ecco come essa venne riassunta con assoluta sinteticità
nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: “Secondo le informazioni degli
italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si
trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di
raggiungere le lance di salvataggio…”. Da fonte non sospetta, uno storico
americano, risulta che le scialuppe e le cinture di salvataggio a bordo della
Laconia fossero sufficienti per tutti i suoi passeggeri: “Laconia had enough
lifeboats and rafts to support all 2,700 persons aboard her, including the
POWs.” [La Laconia aveva sufficienti scialuppe e galleggianti per tutte le 2700
persone imbarcate, inclusi i prigionieri di guerra] (“Hitler’s U-Boat War-The
Hunted, 1942-1945”, Clay Blair jr.). Ciò nonostante le guardie polacche
ricevettero l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi
nelle stive, condannandoli di fatto ad una morte orribile e premeditata per
affogamento.
Possiamo a malapena immaginare il panico ed il terrore che si impossessarono di
quegli uomini quando, davanti alle loro disperate richieste, videro le
sentinelle rifiutarsi di aprire le sbarre, negando loro anche l’ultima speranza
di sopravvivenza tra le acque dell’Oceano.

Le testimonianze su quei tragici momenti sono agghiaccianti, qualcuno dei
prigionieri tentò addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti
dello scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si scagliarono
contro i cancelli sbarrati, sebbene le guardie non esitassero a respingerli a
colpi di baionetta o a sparargli a bruciapelo. Oltre ai racconti dei
sopravvissuti la semplice evidenza del tipo di ferite riscontrate su alcuni di
essi confermano purtroppo i fatti.

Nel libro “Sopra di noi l’Oceano”, di Antonino Trizzino, è riportata la
drammatica testimonianza del caporale Dino Monti: “Quelli che erano più vicini
alla grata, appena i morti e i feriti stramazzavano a terra, ne prendevano
subito il posto. La grata si torceva, si piegava sotto la loro pressione. (…)
Alla fine i nostri sforzi centuplicati dal terrore, dall’esasperazione, dalla
follia collettiva ebbero ragione della grata. Calpestando i caduti ci lanciammo
verso le scale.” L’orrore proseguì sul ponte della nave, dove venne fatto fuoco
sugli italiani che cercavano di trovare posto nelle scialuppe, e raggiunse il
culmine tra le acque dell’Oceano dove vennero trovati alcuni cadaveri di
italiani privi delle mani. La spiegazione è ancora nella testimonianza: “Quando
si aggrappavano alle scialuppe quei maledetti gli recidevano i polsi perché non
potessero più arrampicarsi. Urlavano come bestie sgozzate mentre scivolavano in
acqua senza più mani” (Trizzino, op.cit.).
L’emersione del sommergibile tedesco provocò la fine di questa barbarie
imponendo una difficile convivenza tra ex prigionieri ed ex carcerieri,
accomunati dalla comune condizione di naufraghi in balia delle onde. Tuttavia è
facile comprendere quali fossero i sentimenti, anzi i risentimenti, degli
italiani sopravvissuti nel ritrovarsi accanto i carnefici di pochi minuti prima,
e sapendo che sotto di loro giacevano i corpi gonfi di centinaia di loro
commilitoni.
L’ODISSEA DEI SOPRAVVISSUTI ALL’AFFONDAMENTO

La notizia dell’involontaria strage di ‘alleati’ italiani causata
dall’affondamento della Laconia creò non pochi problemi a Berlino, tanto che la
questione venne sottoposta addirittura all’attenzione di Hitler. Nonostante la
crudele scelta fatta dagli inglesi (ad onor del vero bisogna ricordare che
almeno il comandante della Laconia scelse di affondare con la sua nave), nelle
acque intorno all’U-156 annaspavano ancora centinaia di soldati italiani che gli
alleati germanici non potevano abbandonare al loro destino.
Bisogna tuttavia rilevare che il comandante del sottomarino tedesco Werner
Hartenstein, al di là della ‘ragione politica’, aveva già provveduto di sua
iniziativa sia al soccorso dei naufraghi, come risulta chiaramente dal suo primo
messaggio: “…con 1500 prigionieri italiani – sino ad ora 90 salvati”; ed è
confermato dal successivo messaggio: “HO A BORDO 193 UOMINI, TRA CUI 21 INGLESI.
CENTINAIA DI NAUFRAGHI GALLEGGIANO CON CINTURE DI SALVATAGGIO”. Hitler, pur
manifestando il suo rammarico per la morte degli italiani, disse che Hartenstein
non si sarebbe dovuto occupare della sorte dei superstiti. Fortunatamente fu
solo un parere e non un ordine, infatti l’ammiraglio Raeder concesse a Dönitz di
inviare nella zona l’U-506 e l’U-507 e non si oppose all’invio del Cappellini. I
tedeschi coinvolsero nell’operazione anche i francesi di Vichy, chiedendo loro
di inviare sul luogo dell’affondamento le navi di stanza a Dakar e riportare a
terra i naufraghi salvati dai sottomarini.

Ma la situazione sotto gli occhi di Hartenstein era drammatica e non consentiva
indugi. Pur avendo imbarcato quanta più gente possibile all’interno e
all’esterno del sottomarino, ed aver preso a rimorchio tutte le scialuppe di
salvataggio rimaste, intorno a lui si dibattevano ancora centinaia di corpi tra
le acque. Come se non bastasse il sangue dei feriti aveva richiamato tutti gli
squali della zona che avevano già fatto scempio dei vivi e dei cadaveri: “Ne
guizzavano tanti in mezzo a noi – raccontò un soldato milanese ai marinai del
Cappellini – addentavano un braccio, mangiavano a morsi una gamba. Altre
bestiacce più grandi, orrende, trinciavano corpi interi” (Trizzino, op.cit.).

Hartenstein, inoltre, si rendeva conto che gli aiuti promessi non avrebbero
potuto raggiungerlo prima di 48 ore. La cruda realtà era che un sottomarino con
50 marinai stava affrontando da solo il salvataggio di oltre mille naufraghi. Il
comandante tedesco prese quindi un’incredibile iniziativa personale facendo
diramare, ‘in chiaro’, un messaggio in lingua inglese in cui chiedeva aiuto a
tutte le navi ‘nemiche’ in navigazione, giungendo ad indicare la sua esatta
posizione: “If any ship will assist the shipwrecked Laconia crew I will not
attack her, providing I am not attacked by ship or air force. I picked up 193
men. 4 degrees -52″ south. 11 degrees – 26″ west. German Submarine”. [Qualsiasi
nave che soccorrerà i naufraghi della Laconia non sarà attaccata, purchè io non
sia attaccato da navi o aerei. Ho già raccolto 193 uomini. 4 gradi-52” sud. 11
gradi, 26” ovest. Sottomarino tedesco]. Il messaggio partì alle 6 del mattino
del 13 settembre e venne ripetuto tre volte. Ma nessuna nave inglese rispose
all’appello. “The British in Freetown intercepted this message, but believing it
might be a ruse de guerre, refused to credit it or to act.” [Gli inglesi a
Freetown intercettarono questo messaggio, ma credendo che potesse essere un
trucco di guerra, rifiutarono di dargli credito o di agire] (Clay Blair,
op.cit.).
Finalmente, all’alba del 15 settembre, più di due giorni dopo il naufragio,
arrivò l’U-506, raggiunto nel pomeriggio dall’U-507. Il primo raccolse 132
italiani e 10 tra donne e bambini inglesi, e prese a rimorchio quattro scialuppe
con circa 250 persone; il secondo prese a bordo 129 italiani, 1 ufficiale
inglese, 16 bambini e 15 donne, e a rimorchio 7 lance con 330 superstiti fra cui
35 italiani. Hartenstein rimase con 131 superstiti tra cui cinque donne. Il
giorno dopo Dönitz inviava questo messaggio ai suoi sommergibili: “PER IL GRUPPO
LACONIA. AVVISI COLONIALI DUMONT-D’URVILLE – ANNAMITE – ARRIVERANNO
PROBABILMENTE MATTINATA DEL 17.9. INCROCIATORE CLASSE GLOIRE VIENE A GRANDE
VELOCITA’ DA DAKAR. QUI APPRESSO ISTRUZIONI PER CONTATTO”.

A questo punto la tragedia sembrava essere giunta all’epilogo, ma un altro
sanguinoso capitolo si stava per aggiungere. Alle 11.25 del 16 settembre
sull’U-156 apparve un aereo, un B-24 ‘Liberator’ americano di cui si
distinguevano chiaramente le insegne sotto le ali. A bordo del quadrimotore
c’erano il tenente-pilota James D. Harden, il tenente Edgar W. Keller, e
l’ufficiale di rotta Jerome Periman. Ai loro occhi apparve chiaramente la scena
della tragedia: nelle acque circostanti il sottomarino tedesco, sul quale
Hartenstein aveva fatto stendere un grande telo bianco con una croce rossa,
galleggiavano centinaia di corpi, in gran parte cadaveri, e diverse scialuppe e
zattere di fortuna cariche di naufraghi. Dall’U-156 si trasmise in Morse: “QUI
SOMMERGIBILE TEDESCO CON NAUFRAGHI INGLESI”. Il pilota americano non rispose. Un
inglese chiese ad Hartenstein di trasmetteRE lui un messaggio all’aereo: “QUI
UFFICIALE RAF A BORDO SOMMERGIBILE TEDESCO. CI SONO I NAUFRAGHI DEL LACONIA,
SOLDATI, CIVILI, DONNE, BAMBINI”. Il pilota non rispose nuovamente e si
allontanò.

Alle 12.32 l’apparecchio americano ritornò e bombardò il sottomarino!

Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa e una colpì l’U-Boot
causando avarie agli accumulatori ed al periscopio.
Hartenstein ordinò subito di evacuare i naufraghi e, fatte tagliare le cime che
trattenevano le scialuppe, s’immerse alla profondità di 60 metri. Quando dopo
molte ore riemerse trasmise il seguente messaggio al suo comando: “HARTENSTEIN –
STOP – LIBERATOR AMERICANO CI HA BOMBARDATO CINQUE VOLTE CON QUATTRO LANCE
CARICHE NONOSTANTE BANDIERA CON CROCE ROSSA DI 4 METRI QUADRATI – STOP – ALTEZZA
ERA DI SESSANTA METRI – STOP – I DUE PERISCOPI DANNEGGIATI – STOP – INTERRUZIONE
SALVATAGGIO – STOP – TUTTI SGOMBRATI DAL PONTE – STOP – VADO A OVEST PER
RIPARARE – HARTENSTEIN. Il 17 settembre, alle 12.22, anche l’U-506 venne
attaccato da un idrovolante che sganciò tre bombe sebbene il sottomarino, con i
suoi 142 passeggeri a bordo, si fosse già immerso avendolo scorto in tempo.

Nel frattempo anche il Cappellini aveva raggiunto la zona. Il mattino del 16
incontrò la prima scialuppa con 50 inglesi ben provvisti di acqua e viveri. Due
ore dopo un’altra con uomini donne e bambini inglesi che rifornì di acqua e
viveri. Nel pomeriggio incontrò finalmente delle scialuppe con a bordo degli
italiani: “..si possono sentire sempre più distinte le invocazioni di soccorso:
in milanese, in napoletano, in siciliano. Tutto intorno galleggiano cadaveri
profondamente dilaniati dai denti degli squali. Altri hanno le mani staccate
come con un colpo d’ascia” (Trizzino, op.cit.). Le scialuppe erano quelle dei
naufraghi che erano stati salvati da Hartenstein che, dopo l’attacco americano,
era stato costretto da un ordine di Dönitz a sbarcare tutti i superstiti che
aveva a bordo.
Il Cappellini, imbarcati sottocoperta 49 italiani feriti e sistemati sul ponte
tutti gli altri naufraghi, cercò per altri quattro giorni le navi francesi di
soccorso, che nel frattempo avevano già preso a bordo tutti i superstiti che
erano stati salvati dagli U-Boot 506 e 507: più di 700 inglesi, 373 italiani, e
72 polacchi, che arrivarono a Dakar il 27 settembre. Finalmente, alle 8 di
domenica 20 settembre, il Cappellini s’incontrò con il Dumont d’Urville del
capitano Madelin, a cui consegnò 42 italiani e 19 inglesi. Altri 7 italiani e 2
inglesi rimasero a bordo e seguirono il Cappellini fino a Bordeaux, sede della
base navale italiana nell’Atlantico ‘Betasom’. Altri naufraghi del Laconia, un
centinaio di sfortunati che avevano trovato rifugio su due canotti, raggiunsero
la costa dell’Africa solo dopo diverse settimane in mare. Solo sei di essi erano
rimasti in vita.

Tra tutte le fonti consultate è possibile stimare il numero totale dei morti
della Laconia tra i 1600 ed i 1700. L’unica cosa certa è che nemmeno un terzo
dei 1800 prigionieri di guerra imbarcati a Suez si salvò dal naufragio, mentre
le perdite inglesi furono minime: “Morti: 1350 italiani su 1800, contro 11
inglesi su 811”, secondo Trizzino che cita fonti ufficiali. Un sito polacco sui
disastri navali della seconda guerra mondiale indica un totale di 1649 morti, di
cui 31 polacchi su 103 imbarcati.

http:// cronologia.leonardo.it/battaglie/batta108.htm
Andrea David Quinzi