SAF : Servizio Ausiliario Femminile


Fu l’indignazione per il tradimento badogliano dell’8 settembre 1943, che vanificava il sacrificio dei Caduti e lo sforzo comune di più generazioni, a provocare la reazione di un rilevante numero di donne, la maggior parte giovani, e a spingerle ad una scelta non soltanto politica ma a difesa dell’onore stesso d’Italia. Esse vollero dimostrare in modo tangibile la loro ribellione all’ignobile tradimento consumato il 3 settembre 1943 a Cassibile, in Sicilia, dove Badoglio firmò all’insaputa dell’alleato tedesco l’armistizio con il nemico. Per rigore storico precisiamo che il 5 dello stesso mese (nonostante l’armistizio firmato) fu violentemente bombardata dalle “fortezze volanti”, gli enormi bombardieri angioamericani, la città di Frascati e che solo l’8 settembre gli italiani vennero a sapere dell’avvenuta resa.
Nel gennaio 1944 il giornalista Concetto Pettinato scrive su “La Stampa” un appassionato articolo nel quale chiama a raccolta nell’ora difficile e disperata le donne d’Italia.
A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa 600 giovani donne si radunano spontaneamente e ribadiscono la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate.
Situazioni analoghe si verificano in altri centri della Repubblica Sociale italiana. Cominciano a costituirsi spontaneamente gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Si va sempre più concretizzando l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
A Torino l’insegnante Anna Maria Bardia raduna un gruppo di ragazze che, dopo un corso di addestramento in una caserma di Moncalieri, vengono impiegate nei reparti della Guardia Nazionale Repubblicana di Frontiera (Confinaria), dando prova di disciplina, di serietà e di attaccamento al dovere.
Anche la Decima Flottiglia MAS comincia ad inquadrare le sue volontarie. i corsi dei Servizio Ausiliario della Decima, organizzati e guidati da Fede Arnaud Pocek, furono tre (Sulzano, BS – Grandola, CO – Coi di Luna, TV), per un totale di circa 300 ragazze.
Dai primi dell’aprile 1944 è in svolgimento a Noventa Vicentina il primo Corso Nazionale “Avanguardia” dell’opera Balilia, il cui Presidente, Generale Renato Ricci, è un convinto assertore dell’arruoiamento femminile nelle Forze Armate.
Seguiranno altri due corsi nazionali: “Ardimento” a Castiglione olona e “Siro Gaiani” a Milano, quest’ultimo intitolato al milite della G.N.R. falciato da una raffica di mitra esplosa dai partigiani mentre essi tentavano di penetrare nell’edificio adibito ad accantonamento delle allieve. Le ausiliarie uscite da questi tre corsi vengono scherzosamente chiamate “Balilline” in quanto la loro età minima di arruolamento è di soli 16 anni. In prevalenza, esse presteranno servizio alla Guardia Nazionale Repubblicana.
Anche le “Balilline”, come le sorelle maggiori, non esitano ad abbandonare la casa, la scuola, gli affetti e le comodità della famiglia. Scelgono, temperando l’esuberanza dell’adolescenza, una vita di disciplina e di sacrificio, pur di poter essere anche loro utili alla Patria.
La loro divisa è costituita da: giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore kaki, camicia nera, basco, e fregi della doppia M della G.N.R. sulla fibbia dei cinturone di pelle e sul bavero.
Dal Memoriale della Vicecomandante Cesaria Pancheri
I volti si confondono nel ricordo. Balzano incontro in file serrate come quando marciavano e sembravano un unico volto nel riflesso della passione comune. Nel cuore hanno un solo nome: che racchiude in sé dolore e ardimento, sofferenze e ribellioni: ausiliarie.
I nomi dei corsi sono come bandiere in raccolta, i nomi dei campi di concentramento e delle prigioni sono i cartelli indicatori, attorno a cui i volti emergono dalla nebbia del tempo.
Una fraternità creata da un anno di vita militare ha stretto le volontarie del S.A. in una compatta unità, rendendo comuni le sofferenze, i ricordi, le speranze. Oggi, la vita borghese ha riassorbito le ausiliarie. Camminano nelle infinite strade del destino inseguendo il sogno che spinge ognuno di noi a portare il fardello della vita. Incontrandoci su queste strade non ci riconosciamo più. Abbiamo smesso la divisa, orgoglio del soldato, e non c’è più nulla di esteriore a rivelare la vita militare. Nel periodo dell’insurrezione, raminghe portavamo su di noi ancora un’impronta del passato, quella che bastava a farci, riconoscere anche se non eravamo compagne di corso.
Erano le scarpe che non avevamo potuto cambiare che tradivano una comune origine, o le calze o quel modo strano di vestire gli abiti borghesi, dopo un anno di grigioverde. E da quel particolare nasceva il desiderio di rivelare l’identità. Salivi in tram e scrutavi i volti dei vicini, i giornali che leggevano, pensavi che sarebbe andata bene anche questa volta, ed ecco che al momento di scendere una ragazza si avvicinava furtivamente e sussurrava: “Comandante, corso “18 Aprile”, corso “Roma”, ed aveva un sorriso felice, un sorriso che voleva dire: sono ancora qui, non sono riusciti a pescarmi”.
Era come incontrare un’oasi nel deserto, come bere a una fresca sorgente, quella dell’amicizia.
Hanno gettato fango e sangue sulle ausiliarie. Hanno odiato in esse l’espressione del coraggio e della decisione in un periodo in cui molti trovarono, nella vigliaccheria dello spirito, rifugio alla paura.
Non conoscevano le ausiliarie, non sapevano la forza di volontà, l’entusiasmo e anche un pizzico di follia che faceva sfidare il destino e che dava alla vita un senso, pauroso e dolce nello stesso tempo, e che era per l’ausiliaria il viatico necessario in un mondo dove l’amore era morto.
C’era una canzone delle ausiliarie che parlava dei loro vent’anni. Ma molte ne avevano ancora meno. Avevano disertato i banchi della scuola per essere presenti ad una scuola di sacrificio e di disciplina, avevano chiuso i libri per leggere nel gran libro della vita una storia di tradimento e di morte, dove i sogni non avrebbero trionfato nella realtà. Ragazze adolescenti come Nadia, Lucia, Luciana e tutte le allieve dei corsi dell’Opera Balilla di [Castiglionel Olona, Noventa e Milano, si forgiarono nel duro addestramento militare, piegando l’esuberanza alla disciplina, costituendo una sorgente di fresca speranza. E molte avevano i segni degli anni sul volto e i segni del lutto sulle vesti. Erano madri e spose di caduti. Vestendo la divisa grigioverde esse rivivevano i sogni di gloria del figlio o del marito, un povero sogno insidiato dal tarlo del disfattismo.
Intellettuali e donne del popolo avevano trovato nell’amore della Patria il cimento all’amicizia e alla solidarietà.
Era un amore purificatore che dissolveva le incrostazioni artificiose della cultura per lasciare l’animo ardente. Nel richiamo scaturito dalle profondità dello spirito c’era il comune senso della solidarietà. Tutte le ausiliarie dalla comandante alla donna di fatica che puliva i pavimenti avevano un solo fine: servire l’Italia.
Oggi, nella vita borghese, se un’ausiliaria ti passa accanto tu non la conosci perché non ha lo zaino troppo gonfio, né il basco troppo inclinato, o i capelli ribelli da riprendere. Così quando in una città dell’Abruzzo mi avvicinai ad un’edicola per comprare un giornale, in attesa del treno, il volto aureolato della fiammata dei capelli rossi non mi disse nulla. Ma lei riuscì a mettersi sull’attenti anche nei pochi decimetri quadrati di pavimento e balzò anche il suo nome dal ricordo. Era l’ausiliaria emiliana, che ci aveva fatto ammattire con le sue trovate, destinate a drammatizzare la vita monotona del Comando. Quando vi era giunta era reduce da un brutta avventura. Era stata catturata dai partigiani sull’Appennino e liberata da un reparto nostro.
Della prigionia aveva conservato un’impronta indelebile che prendeva vita nei sonni agitati da incubi, in cui riviveva l’orrore della cattura. Al Comando, dove era stata tenuta a riposo, si annoiava. Fu per questo che un pomeriggio la sede del Comando fu scossa da un’esplosione. Trovai la ragazza nell’atrio semisvenuta, attorniata da un gruppo di compagne. Aprì gli occhi e li richiuse. Aveva raccontato di essere stata aggredita da un partigiano, che le aveva lanciato una bomba a mano. Uno spigolo del pilastro e del cancello mostrava una sbrecciatura. Più tardi, sotto il torchio di un interrogatorio fatto dalla comandante confessò di essere stata lei. Voleva mantenere il ruolo di protagonista e non cadere nella folla anonima delle comparse. Ridemmo ricordando il fatto. Ora vendeva giornali e sigarette alla borsa nera e stava benone.
Sembrava una belvetta fulva in una gabbia troppo stretta.
La divisa rendeva simili le ausiliarie, dalla testa ai piedi tutto era regolamentare, compresa l’inclinazione del basco, il famoso basco “all’invasore” come lo definì un’ispettrice dei fasci femminili, non troppo tenera verso di noi.
Era un mondo femminile difficile da guidare e capire, perché è sempre difficile sondare l’impulso del sentimento piuttosto che quello della ragione. In epoche in cui l’equilibrio si rallenta per il prevalere delle passioni contrastanti, i contorni delle cose si deformano ed è difficile cogliere l’essenza della realtà.
Il clima spirituale di queste ragazze era arroventato dal riflesso delle passioni, che avevano diviso il paese. Esse erano intransigenti, come la giovinezza, incapaci di comprendere i compromessi di cui la vita è intessuta.
Era un mondo dove metalli diversi cercavano, nel comune crogiuolo, un’unica tempra: la tempra che creò l’ausiliaria.
Ognuna recava un bagaglio di idee e d’illusioni, ognuna credeva nei miracoli e disprezzava il buon senso come indice di debolezza.
Nel comando vedevano un organo burocratico, che creava difficoltà ai loro piani, che gettava acqua sulle loro passioni.
Ed era anche un cospirare continuo, un brontolare affettuoso, il tradizionale malcontento della “naia” contro gli uffici dei comandi.
Ausiliarie strampalate inviavano piani che avrebbero dovuto mettere in sesto qualche servizio della repubblica. Altre, nell’entusiasmo verso i soldati, chiedevano di raggiungere il fronte e magari trascinate dal loro sogno, abbandonavano il posto per raggiungerlo. Poi erano fermate sotto l’accusa di diserzione e il tribunale militare applicava come punizione proprio quello che desideravano: il fronte. E allora colloqui con i generali per spiegare che le ausiliarie disertavano per raggiungere il fronte e che quindi bisognava punirle diversamente per l’indisciplina.
E tra le ausiliarie c’erano comandanti inquiete a cui non bastava la responsabilità del comando, ma spiravano a realizzazioni più ampie.
Rimproveravano al comando un’azione senza voli di fantasia, non approvavano la selezione degli elementi, il controllo dei requisiti, avrebbero aperto le fila a tutte coloro che lo richiedevano perché consideravano la partecipazione alla guerra una catarsi rigeneratrice. La “Stampa” di Torino iniziò un attacco dicendo che il Comando generale aveva una concezione monacale del S.A., mentre decine di migliaia di donne avrebbero potuto entrare nei quadri del S.A. Ispiratrice dell’articolo era stata una comandante che univa ad un ingegno brillante un pizzico di spavalderia. Furono anche le sue insistenza a porre il problema dei nuclei di assistenza presso le divisioni al fronte. E molte erano, come lei, pronte allo sbaraglio e insofferenti a ogni voce di prudenza.
Esse credevano di non essere capite, ma c’era invece a frenare l’impulso quel sentirsi arbitri di decisioni che potevano mutare i destini.
E c’erano le ausiliarie che ovunque vedevano il tradimento, il disfattismo, la sfiducia e invocavano interventi, che non avvenivano per l’impossibilità di agire in base a semplici intuizioni, anche se in tutti era la convinzione che molte cose andassero a rovescio per il tradimento annidato negli stessi comandi militari. Ma se esistevano contrasti essi erano aperti e non scavavano abissi tra noi, eravamo una famiglia, dove il vincolo del sangue era sostituto dallo spirito di corpo. Scambiavamo le scarpe in buone condizioni con quelle a buchi delle ausiliarie in partenza. In ogni accantonamento cedevano la brandina e dormivano per terra per ospitarci nelle ispezioni.
L’eroismo dell’ausiliaria non si è manifestato solo di fronte alla morte, che non fu una libera scelta, non nella prigionia che fu inevitabile, ma nel sopportare giorno per giorno la disciplina e la vita dura, la gavetta e la branda, la vita incerta, i trasferimenti.
E tutto questo non avveniva tra il consenso della gente, tra il festoso saluto del popolo, ma tra l’ostilità e la minaccia, con la sensazione del pericolo sulle spalle. Un capo partigiano mi disse, dopo l’insurrezione, che aveva sempre avuto terrore delle ausiliarie. Un giorno che una lo aveva fissato per strada, concluse, il cuore gli batté all’impazzata. “Se mi guardava ancora un pò sparavo”. E pensare che forse lo guardava solo perchè era un bel ragazzo, non poteva leggere in viso che era un partigiano. Quando glielo dissi ammise che poteva essere così, ma loro ci pensavano a caccia di partigiani, mentre la realtà era che loro cacciavano le ausiliarie. Eleganti, sorridenti, trovarono l’amore tra i bombardamenti e le avventure. Quando le vedo nelle divise attillate penso all’ausiliaria curva sotto il sacco da montagna, ferma ai posti di blocco in attesa di un camion,sola con la sua fede contro tutti. Forse anche l’amore è nato nella solitudine delle Alpi, o nelle corsie di un ospedale, un amore tra disperati, senza avvenire. Storie di ausiliarie fioriscono nella memoria.
Tutte ne hanno una da raccontare ai figli o ai nipoti. Alcune sono diventate patrimonio comune di cui siamo orgogliose, tale è la storia di M. Luisa. Viveva in una città oltre il Po, già conquistata dagli alleati. Frequentava il liceo, ma il suo pensiero si rodeva nella vita tranquilla pensando alla guerra che ancora continuava. L’odio per i conquistatori e l’ansia di partecipare alla lotta ardevano nella sua anima adolescente con tragica violenza. La guerra si era spostata qualche chilometro verso nord, lasciando dietro di sé le tracce dei combattimenti. M. Luisa volle raggiungere il territorio della repubblica. Attraverso la radio sa che si combatte ancora, sa che vi sono le ausiliarie. Sul tavolo vi sono i libri preparati per la scuola, ma lei ha deciso di non andarci più.
All’alba esce sulla strada dove le macchine rombano senza riposo, portando i rifornimenti alle linee.
Un camion alleato rallenta. La solita faccia di negro si apre nel sorriso come un cocomero spaccato. “Tu dove andare?” “Andare a A. a trovare parenti”. Sale sul camion, il negro canta un ritmo bizzarro.
M. Luisa pensa al mondo chiuso dietro di sé, alla gentilezza del negro, all’avvenire. Ad A., M. Luisa toccò il braccio del soldato: “Io scendere qui”. A tre chilometri c’erano le linee. Il difficile era passare. Una nebbia leggera copriva il terreno, gli alberi sembravano galleggiare su un mare fluttuante, come fantasmi. Più in là una sentinella piegò verso una casupola diroccata e vi entrò. La ragazza continuò ad avanzare come un automa, col cuore che batteva furiosamente. Il tempo non contava più nel terrore di non riuscire, quanto camminò? Ore, minuti, forse, ma sembrarono secoli. Da una buca balza un soldato e l’afferra. Ha un volto duro e spietato e urla: “C’è una spia”. Lei singhiozza, ride, i soldati accorsi non capiscono. Dopo spiega all’ufficiale che vuol andare a Milano ad arruolarsi: conosce il generale Diamanti. Viene accompagnata a Milano. Il generale telefona al Servizio ausiliario, l’indomani M. Luisa è allieva ausiliaria. Dopo il corso riprende la strada per prestare servizio ad un posto di ristoro verso le linee. Era una ragazza tranquilla, con qualche cosa d’infantile nel viso, solo gli occhi avevano una ferma risolutezza, che le trecce allungate sulle spalle non riuscivano a cancellare.
Tutte le ausiliarie ricordano Giovanna Deiana. Era rimasta cieca in un bombardamento e aveva supplicato di essere accolta nel S.A.F.
Venne con una sorella più giovane. Attorno a sé rifletteva la serenità del suo spirito non piegato dalla prova. Era come se vedesse più profondamente di tutte. Quando Giovanna Deiana conversava col tenente Infantino, cieco e mutilato delle mani, ospite talvolta delle ausiliarie, sembrava di assistere ad un colloquio tra due anime, che oltre il martirio della carne, vivessero negli spazi senza limiti dello spirito.
Per essi s’era spenta la luce delle cose, ma splendeva dietro le pupille arse la luce della fede e della speranza.
La storia dell’ausiliaria Franca Barbieri, proposta per la medaglia d’oro, è quella d’un soldato. Catturata dai partigiani, le viene offerta la vita a condizione di passare nei ranghi delle loro formazioni. L’ausiliaria rifiuta. Di fronte al plotone di esecuzione grida “viva l’Italia” e cade sotto le raffiche dei mitra.
Il Servizio ausiliario aveva pochi mesi di vita, ma già un esperienza di dolore e di morte gravava lo spirito delle volontarie.
Le imboscate diradavano le fila, lasciando un senso di desolazione. I nomi diventavano elenchi, freddi elenchi che riassumevano una tragedia.
La capogruppo Forni fu uccisa dai partigiani mentre tentava, con mezzi di fortuna, di raggiungere il fratello ferito in un ospedale del Piemonte. Fu trovata in un bosco crivellata di colpi.
L’ausiliaria F., del Comando di Novara, prese una breve licenza per salutare la madre e la famiglia. Si recò al posto di blocco per trovare un mezzo. Fu la macchina del prefetto Manganiello che diede un passaggio alla ragazza. Ma non arrivò a destinazione. Il suo corpo seviziato e irriconoscibile fu tratto dallo stagno in cui era stato gettato insieme a quello del prefetto. Non rivide più sua madre. Incominciarono in seguito le catture. La vita delle ausiliarie prigioniere dipese dal caso, dalle vicende e dall’umanità dei partigiani. Non vi era legge di guerra a salvaguardare il diritto del soldato. Era una guerra piena di incognite.
La comandante di Novara con due ausiliarie fu catturata con un gruppo di soldati in una stazione sulla linea Novara-Torino. Un gruppo di partigiani assalì il treno. Soldati e ausiliarie sotto la minaccia dei mitra dovettero scendere e seguire i partigiani verso la montagna. Furono tolte le scarpe ai prigionieri, che camminarono scalzi, nella notte, dormirono di giorno nei pagliai per riprendere la tragica marcia.
La notizia arrivò al comando suscitando dolore e sbalordimento. Poi un giornale pubblicò la notizia della fucilazione. Una volta tanto la notizia non era vera. Arrivarono invece le proposte dei partigiani per lo scambio. Chiedevano 18 partigiani, ostaggi nelle carceri. Molti erano in mano dei tedeschi. Pregammo il federale Porta, che ci pose a contatto col generale Tensfeld a Monza.
I tedeschi mollarono quattro partigiani, otto i nostri, e lo scambio si effettuò sulla base di 12. Le ausiliarie tornarono alla vita sconvolte per aver assistito alla fucilazione di un volontario della Nembo.
Esse subirono umiliazioni, furono schiaffeggiate, ma ritornarono salve. Fu don Riva, il nostro cappellano, che andò a prenderle in consegna.
Ripresero il loro posto. L’ultimo ostaggio fu costituito dalla comandante della Spezia, una ragazza piena di coraggio, che voleva i posti più avanzati e pericolosi. Fu fermata dai partigiani ad un posto di blocco tra la Liguria e il Piemonte. Fu rimessa in libertà dopo l’insurrezione. La cattura delle ausiliarie aveva messo in allarme gli ambienti militari per le conseguenze che ne derivavano.
La richiesta degli ostaggi per lo scambio era in forti proporzioni. Il Comando proibì le licenze, raccomandò misure di prudenza.
Ma le ausiliarie non vollero costituire una preoccupazione. Arrivarono in quei giorni, sempre più numerose, le lettere che dicevano: “In caso di cattura prego il comando a non far passi per ottenere la liberazione con lo scambio di ostaggi”.
Così erano, materia incandescente da cui si sprigionavano scintille di fede, bagliori di entusiasmo.
Così erano impastate di eroismo e di follia, in un mondo di compromesso e di malignità.
Così cantavano, e mai canzone fu cantata con tanta spavalda consapevolezza, e mai canzone fu così vera. Fidanzate della morte, suggellarono l’amore nel sangue perché durasse eterno.
Nelle sanguinose giornate dell’ Aprile-Maggio 1945 il SAF è il reparto dell’esercito repubblicano che, in proporzione ai suoi organici, paga il più alto tributo di sangue alla causa della R.S.I..
Centinaia di ausiliarie vengono catturate, martirizzate, seviziate e massacrate.