Luisa Ferida

Ci sono tanti volti femminili a Campo 10, unico campo militare italiano con presenze femminili.
Molte erano Ausiliare, vestivano l’uniforme, altre civili: mogli, figlie o sorelle di fascisti. Si incontrano
volti bellissimi e sorridenti ognuno dei quali sembra il contrappunto solare alle storie atroci di
sevizie che hanno dovuto subire nei giorni della “radiosa primavera” del 1945.
Entrando nel Campo, sulla destra, nella corsia dove furono raccolti i primi corpi dei fascisti uccisi,
c’è un solo volto di donna, ma dalla bellezza unica: Luisa Manfrini (recita la lapide), in arte Luisa
Ferida, la più famosa attrice cinematografica italiana (e mondiale) degli anni Trenta, la diva dei “telefoni
bianchi”. Così la descrivono le cronache: “Gli occhi pungenti da zingara, gli zigomi alti, i capelli
color carbone, il corpo splendido, il portamento altero. In lei c’era qualcosa di erotico, di torbido
e di felino, una sensualità, una rotonda carnalità da bellezza popolana, che conquistò tutti gli italiani”.
Faceva coppia fissa, sullo schermo e nella vita con un altro mito dell’epoca: Osvaldo Valenti.
Insieme non smisero mai di lavorare, neppure durante la guerra, neppure dopo l’8 settembre quando
parte degli stabilimenti di Cinecittà furono trasferiti a Venezia, nel territorio della Repubblica Sociale,
dove si continuò a produrre fino a tutto il 1944. Due attori, due miti internazionali (per far capire
ai giovani erano l’equivalente degli odierni Brad Pitt e Angiolina Jolie), non icone politiche,
anche se Valenti volle indossare per qualche mese la divisa della X MAS, non strumenti di propaganda
(gli ultimi due film girati si intitolano La Locandiera e Un fatto di cronaca). Eppure.
Eppure il 10 aprile del 1945, quando la fine è ormai imminente, Osvaldo Valenti decide di consegnarsi
spontaneamente ai partigiani nella speranza di salvare lei, Luisa, che era in attesa di un bimbo.
Il 21 aprile il comandante Marozin, della Divisione partigiana Pasubio incontrò Sandro Pertini
(sì, lui, il “presidente buono”!!!) il quale, avendo avuta notizia della prigionia di Valenti e della Ferida,
gli ordinò lapidario: “fucilali e non perdere tempo”. Questo fu dichiarato dallo stesso Marozin
durante un procedimento a suo carico nel dopoguerra. Ignari della loro fine, i due furono caricati su
un camion insieme ad altri rastrellati. Giunti in via Poliziano, a Milano, furono fatti scendere e messi
faccia al muro. La donna stringeva in mano una scarpina azzurra di lana, destinata a scaldare i
piedi innocenti di quel bambino che non vide mai la luce. Partì la raffica di mitra. I due caddero al
suolo, stretti tanto nella vita quanto nella morte.
Oggi sono ancora lì, l’uno a fianco all’altra, nel primo vialetto di Campo 10. Per loro – come per
tutti i caduti del Campo dell’Onore – c’è sempre un fiore, un nastro tricolore e una particolare dolcezza
nel pulire la foto su ceramica di quel volto bellissimo.
Nel processo intentato dalla madre dell’attrice negli anni successivi lo stesso Marozin, ebbe a dichiarare:
“La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente, ma era con Valenti. La rivoluzione
travolge tutti”. La rivoluzione travolge tutti… Certo. Poi, però, tutto rinasce: come i fiori a primavera,
come i campi dopo le alluvioni, come la Civiltà dopo il passaggio dei barbari.
Anche questa è una Storia di Campo 10, una Storia di Memento, di ricordo che non passa.
Un motivo di più per fermarsi, per guardare, per pensare, per chinare il capo e per credere ancora e
sempre che da ogni tragedia, può rinasce la speranza ed essa avrà gli occhi lucenti, il sorriso dolcissimo
e la grande bellezza di Luisa “Ferida” Manfrini